Prendi una foto dell’Eroica e trovi una collina. Ecco, le chiami così prima di sentirle salite nelle gambe. È raro all’Eroica trovarsi a pedalare guardando la ruota di quello davanti. Cose che avvengono in gara.
Qui la ruota, a volte, nemmeno c’è. Anzi, l’Eroica per come l’ho sempre vissuta io, è un viaggio solitario. Da soli in mille, più mille e altri ancora. Perché è il riassunto perfetto della bicicletta, l’individualità condivisa che ti fa insieme a tutti ma sempre solo alla fatica.
Prendi una foto ed era in bianco e nero, come la prima volta che ho guardato L’Eroica. Mi aspettavo un gioco e ho trovato un libro, come quelli che avevo e di cui consideravo scontate le immagini: sudore e fatica e un sottofondo di tristezza. Troppe volte il ciclismo eroico, inteso come quello della polvere, lo associamo alle sofferenze di un contesto sociale sfortunato e affaticato. All’Eroica ho ritrovato quel libro colorandone le pagine. C’è da rimanerne storditi ancora prima di tirare fuori la macchina fotografica dalla borsa. Allora torni a leggere di quel ciclismo e ti accorgi che non erano affatto sfortunati. Anzi fieri e indomiti. Belli alla fatica e alle donne, tanto più quando il ciclismo aveva un altro peso.
Quelle fotografie in bianco e nero che poi era grigio e giallognolo, erano diventate colori vividi nel mirino della macchina fotografica; è un rito che si ripete ogni anno assieme al silenzio e a quella collina che non impari mai, roba da finire col piede a terra ma non importa. Qui il viaggio se rallenta non dispiace, vuol dire che finirà più tardi e ne godrai ancora che guai a sfinirsi. Nel silenzio si incrociano gli sguardi e alcuni sono una promessa. Ci si tornerà per voltarsi ancora a cercarsi.
Guido Rubino
