È dove la polvere non copre ma rivela. È dove la polvere non uniforma ma distingue. È dove la polvere non è evitata, ma sognata, ricercata, addirittura benedetta
È dove la polvere non copre ma rivela. È dove la polvere non uniforma ma distingue. È dove la polvere non è evitata, ma sognata, ricercata, addirittura benedetta. È dove le facce sembrano uscite da un quadro espressionista: è l’anima antica del ciclismo che si rivela in una realtà di volti e biciclette macchiate da un cerone d’antan. È la Strade Bianche, anche se bianche non lo sono quasi mai, si limitano a riprodurre tutti i colori delle colline toscane: dal beige al terra di Siena, dal marron al grigio. Gli stessi colori che i corridori si ritrovano addosso, quasi a voler dimostrare che il ciclismo non è altro che continuazione naturale delle strade che percorre.
È l’edizione numero tredici della corsa, eppure la Strade Bianche sembra esserci da sempre. Perché è amarcord di una storia a pedali, è riassunto di epoche diverse che si incollano sui corridori di oggi. È una corsa avvolgente, che ti si attacca addosso. Che ci sia il sole o che ci sia la pioggia in Piazza del Campo a Siena ci si arriva diversi, consapevoli di aver pedalato in un altrove ciclistico. Non c’è corsa che le somigli. È sorpresa e rivelazione. Tra gli sterrati toscani il ciclismo ha scoperto che non c’è niente di più moderno dell’antico, ha scoperto che fuori dall’asfalto c’è vita: una vita spettacolare.
Era il 2007 quando Aleksandr Kolobnev da buon corridore divenne pioniere, storia, primo uomo ad aver conquistato la polvere del ventunesimo secolo. Si chiamava ancora Monte Paschi Eroica, perché dell’Eroica ne percorreva le strade, ne riproponeva lo spirito, anche se in una dimensione competitiva. Un viaggio a velocità elevata, figlia moderna di una madre antica. Perché L’Eroica è un viaggio: in Toscana, dal Chianti sino a Montalcino e ritorno, nel tempo, solo su bici d’epoca, soprattutto dentro sé stessi. È durata due anni quella denominazione, poi ha preso un altro nome, un’altra strada. E così Strade Bianche per evidenza. La sua bellezza non sta nel gusto del pedalare, è nella sua cattiveria, nella sua crudeltà. E sono una cattiveria e una crudeltà ben diverse da quelle delle classiche del Nord, sebbene alle classiche del Nord venga ogni tanto paragonata. Non c’è nulla che ricordi il Belgio – o quella parte di Francia che al Belgio punta – nella Strade bianche. Non il pavé, non i percorsi o i panorami. Pure la polvere è diversa.
È corsa arcitaliana quella che arriva a Siena, dentro sé porta tutta la bellezza e la complessità di questo paese, tutto il suo fascino e i suoi tranelli. Viaggia per paesaggi dolci e mette sotto le ruote dei corridori strade verticali, si muove per panorami incantevoli e non lascia a nessuno la possibilità di guardarli, si trascina per la campagna e impone al gruppo una frenesia di corsa metropolitana. È come l’Italia secondo Malaparte, “culla del diritto e del rovescio”, il diritto che si cerca per staccare tutti, il rovescio che ti arriva sulle gambe se sbagli il momento per farlo.
Giovanni Battistuzzi
